Multiformi e versatili, le nanotecnologie disegnano il futuro. L'esempio della retina artificiale

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La ricerca nell’infinitamente piccolo o nell’infinitamente grande sembra occupare un posto privilegiato nell’immaginario collettivo, forse per le domande cui cerca di rispondere, così radicali e profonde. Ma ci sono ambiti di ricerca che, pur lavorando su dimensioni differenti, ci spingono a scoprire elementi altrettanto fondamentali del nostro rapporto con la realtà fisica. Uno di questi campi di ricerca, estremamente vivace e ricco di novità quasi giornaliere, è quello delle nanotecnologie: operando in una “zona intermedia” fra piccolo e infinitamente piccolo, si interessa di quello che accade alla materia quando costituita da piccoli numeri di atomi, da meno di dieci fino a qualche migliaia, un’inezia se paragonato al numero di atomi che costituiscono corpi estesi.

L’intuizione di andare a indagare a quelle dimensioni venne per primo alla fine degli anni ’60 a una delle menti più brillanti della storia del pensiero scientifico, Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica nel 1965, che in una celebre conferenza suggerì proprio di lanciarsi in quella specie di terra di nessuno che sono le dimensioni cui si interessano le nanotecnologie. Il titolo – “There’s plenty of room at the bottom (C’è un sacco di spazio là in fondo)” – faceva intravvedere possibilità nuove e inesplorate semplicemente ponendo attenzione a quelle dimensioni in cui la “granulosità” atomica della materia è ancora rilevabile. Grazie a questa intuizione, oggi sappiamo per esempio che in certi casi aggregati nanoscopici di alcuni elementi chimici presentano caratteristiche fisico-chimiche diverse da quelle che presentano a livello macro, abbiamo sviluppato modi per costruire macchine microscopiche che potrebbero intervenire in ambito medicale, siamo riusciti a spingere la microelettronica a prestazioni straordinarie. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, ed è difficile pensare che Feynman avesse in mente anche solo in parte gli sviluppi che vediamo oggi, ma quello che resta è l’intuizione visionaria, tipica di chi si lancia con fiducia e curiosità in nuove sfide.

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Le caratteristiche delle nanotecnologie

Le caratteristiche fondamentali delle nanotecnologie sono la versatilità e la pervasività, che si riflettono nell’ampiezza delle possibili applicazioni: dalla scienza dei materiali alla biologia, dalla medicina alla microelettronica. In particolare, un fatto le rende estremamente interessanti per i possibili sviluppi: lavorando a quelle dimensioni si può creare “qualcosa” di artificiale che interviene a livello dei processi biochimici, intervenendo in modo profondo in alcuni meccanismi fisiologici o lavorando su certe patologie a livelli prima impensabili.

L’Italia, che ha una solida tradizione nella ricerca in fisica, con grande qualità diffusa e alcuni picchi di eccellenza, vanta diversi centri di ricerca che si occupano di nanotecnologie. Il soggetto di riferimento per le esperienze più importanti è sicuramente l’IIT, Istituto Italiano di Tecnologia, che dedica diverse linee di studio e ricerca sulle nanotecnologie attraverso laboratori propri o centri realizzati e gestiti in collaborazione con gruppi di ricerca in diverse università dello stivale. Il suo stesso primo presidente, Stefano Cingolani, è un nanotecnologo e ha fondato il laboratorio di nanotecnologie dell’Università di Lecce, uno dei primi in Italia.

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Biologico e artificiale si incontrano

Come accennato, il terreno di incontro fra biologico e artificiale è un campo di lavoro sempre più interessante per i bio-nanotecnologi e diverse sono le esperienze all’interno di IIT che se ne occupano. Poche settimane fa il gruppo milanese del CNST – Center for Nano Science and Technology del Politecnico di Milano, guidato dal Professor Guglielmo Lanzani, ha pubblicato un articolo che sorprende per l’immagine che suggerisce: curare chi rischia di perdere la vista per certi tipi di danni alla retina con una retina “liquida”.

Le patologie su cui il gruppo di Lanzani sta lavorando da qualche anno sono essenzialmente due: la retinite pigmentosa, che, partendo dalla periferia della retina e arrivando al centro, attacca i bastoncelli, i fotorecettori che permettono la visione in condizioni di scarsa luminosità, e la degenerazione maculare, che percorre il cammino inverso, partendo dal centro della retina ed estendendosi progressivamente. Sono patologie abbastanza comuni che attaccano la popolazione in modo differente: la retinite pigmentosa tocca una persona su 3000 e può colpire già intorno ai 20 anni oppure dopo i 50/60, mentre la degenerazione maculare interessa tipicamente le persone anziane e dopo gli 80 anni diventa piuttosto comune.

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La retina tecnologica

Tre anni fa il laboratorio di Lanzani ha realizzato una ipotesi di protesi da inserire in fondo all’occhio, proprio nella zona retinale, per consentire alla retina di raccogliere quella radiazione che non riusciva più a vedere. E’ un approccio già messo in pratica da altri centri di ricerca nel mondo e che ha portato a risultati molto interessanti, in particolare i modelli Argus II e Alpha IMS, che hanno consentito una ripresa, per quanto minimale, del senso della vista a diverse persone nel mondo. Per quanto suggestiva, l’idea di mettere nell’occhio delle protesi elettroniche non è esente da problemi e complicazioni. Innanzitutto c’è un’oggettiva limitazione, in quanto il numero di elettrodi di cui è costituita la protesi che si inserisce è per forza limitato e questo consente una ripresa della vista lontana dalla definizione ottimale e ristretta come dimensioni del campo visivo: i pazienti riescono a distinguere la luce dal buio, interpretano correttamente se una porta o una finestra è aperta, si accorgono del movimento delle persone, ma non riprendono a vedere i dettagli, le sfumature, i colori come riuscivano prima. Ci sono poi problemi di rigetto, cui va incontro l’inserimento di qualsiasi oggetto all’interno del corpo umano.

Al CNST hanno pensato di ovviare al problema della biocompatibilità del materiale utilizzando un particolare polimero a base carbonio, molto meno “disturbante” del silicio di cui sono fatti normalmente i microchip. Il polimero aiuta l’occhio a percepire di più le frequenze che sta progressivamente perdendo, attraverso un meccanismo di emissione di un segnale bio-elettrico quando stimolato da una radiazione luminosa simile all’effetto fotovoltaico, il fenomeno alla base del funzionamento delle celle che producono energia elettrica raccogliendo la luce solare.

Quella di mettere una cella fotovoltaica nella retina danneggiata era proprio l’idea iniziale del gruppo, ma strada facendo si sono resi conto che questo approccio, per così dire “tradizionale”, poteva essere stravolto e semplificato in modo radicale: invece di intervenire sulla zona più lesionata sostituendola con una protesi artificiale, Lanzani e i suoi hanno pensato di iniettare una soluzione acquosa contenente un certo numero dei polimeri fotoassorbenti nello spazio tra l’epitelio pigmentato e le cellule bipolari, cioè esattamente nello strato dove ci sono di solito i fotorecettori.

I risultati che stanno ottenendo sulle prime sperimentazioni animali sono stati incoraggianti, tanto da arrivare a una prima pubblicazione scientifica dei risultati, sia dal punto di vista del guadagno visivo che gli occhi degli animali hanno ottenuto, sia dal punto di vista della biocompatibilità di questa strana protesi. La previsione è che in 5 anni potrebbero arrivare alla standardizzazione dell’idea, usandola sugli umani.

Il lavoro che si svolge al CNST riflette la multiformità e la trasversalità che le nanotecnologie consentono. Pur non essendo infatti un istituto di grandi dimensioni, i campi di interesse sono diversi e diversi gruppi si occupano di linee di ricerca differenti.

Per esempio si lavora su etichette “parlanti”, che possono dare informazioni in tempo reale sul bene che viene etichettato grazie a particolari celle fotovoltaiche di piccole dimensioni che alimentano dei sensori e l’etichetta, che funziona come un vero e proprio display.

Un gruppo sta approfondendo la possibilità di creare nuovi microscopi ottici a scansione di sonda, per ottenere immagini 3d mai realizzate a scala nanometrica, mentre altri stanno lavorando sull’elettronica commestibile: la possibilità, cioè, di creare microchip con materiale perfettamente commestibile, in modo da dare informazioni dall’interno del corpo al medico curante prima che stomaco e intestino lo digeriscano.

L’orizzonte delle nanotecnologie, che rappresentano un punto di incontro per diverse discipline come fisica, chimica, biologia, medicina, ingegneria elettronica e biomedica, sembra essere molto più vasto di quello che immediatamente potremmo immaginarci. Ed è impossibile immaginare quali nuove idee potranno nascere dal grande numero di ricercatori coinvolti in questi campi così differenti, ma accomunati da metodologie simili e dal fatto di lavorare sulle dimensioni nanometriche.

Le nuove realizzazioni che hanno creato e creano gli sviluppi nanotech sono stupefacenti, e meravigliano quasi più degli sforzi teorici e sperimentali messi in campo per ottenerli, tanto che si potrebbe pensare a questo campo di ricerca in fondo come a una scienza “di servizio”, limitata al perfezionamento di alcune tecniche e votata alla produzione.

Eppure, anche in un campo in cui ricerca, produzione industriale, possibilità di intervento medico-farmacologico si intrecciano così strettamente, il fatto stesso di indagare la struttura fine della realtà e le leggi che la governano ci fa accorgere che la realtà è fatta in un modo che spesso va oltre la nostra immediata capacità di comprensione e che serve un grande sforzo intellettuale per svelarne fino in fondo i segreti. Ogni innovazione ha bisogno di una comprensione nuova di aspetti imprevisti. Ogni realizzazione ha bisogno di uno stimolo nuovo, che non nasce da una pianificazione, ma da quella scintilla imprevedibile che ci caratterizza: la capacità di immaginare soluzioni nuove a problemi vecchi o ancora da scoprire. In questa zona di mezzo in cui si possono realmente spostare gli atomi a uno a uno e contarli sulle dita di una mano, ottenendo prodotti dalle proprietà sempre nuove, si fa letteralmente esperienza di un famoso pensiero di Einstein: “La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto!”
Forse è proprio questo il fascino neanche troppo nascosto delle nanotecnologie: sembrano farci tornare un po’ bambini, permettendoci di manipolare gli atomi quasi come mattoncini per ottenere cose mai viste.

Ma quale scatola di Lego offre possibilità di costruzioni così sorprendenti? Quale gioco ci costringe a conoscere ancora di più la struttura fine della realtà che ci circonda e a scoprirne le inesauribili possibilità? Siamo solo agli inizi di un’era di scoperte e invenzioni. Il limite è l’audacia del nostro indagare e immaginare. “There’s plenty of room at the bottom”.

Nicola Sabatini

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