Italiane senza brevetti: solo il 17% delle domande coinvolge una donna

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L’innovazione in Italia non è rosa. Secondo un report della World Intellectual Property Organization (Wipo), le donne sono le grandi assenti quando si parla di brevetti. L’analisi, basata sul censimento di genere degli inventori e pubblicata su lavoce.info, offre uno spaccato preoccupante per il nostro Paese. Se a livello globale la quota di domande di brevetto con almeno una donna in team è aumentata dal 21 al 30% dal 2002 al 2016, in Italia l’incremento è stato modesto. Siamo tra i paesi in cui il contributo delle donne è più basso, insieme alla Germania, al Giappone, all’Austria e all’Australia. Da noi solo il 17% delle domande coinvolge almeno un’inventrice.

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Si tratta di uno spreco di capitale creativo. E il motivo non è la scarsa propensione allo studio delle donne o la loro preparazione. Da anni gli osservatori dell’Istat e di Almalaurea sottolineano come i tassi d’istruzione femminile siano addirittura superiori a quelli maschili. I problemi, semmai, arrivano una volta che le ragazze devono immettersi sul mercato del lavoro. Vale la pena ricordare che in Italia abbiamo un tasso di occupazione femminile inferiore al 50% e che, anche nel mondo scientifico, le donne hanno più difficoltà degli uomini a raggiungere ruoli apicali.

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A questi gap storici si vanno ad aggiungere alcune caratteristiche dell’industria italiana che possono in parte chiarire il perché di questa carenza di brevetti ‘al femminile’. Il rapporto Wipo spiega infatti che la forte specializzazione industriale dell’Italia comporta un tendenza a “brevettare” in settori come quello meccanico e dei trasporti.  Aree dove tipicamente la componente femminile è poco rappresentata.

L’altra faccia della medaglia è che il nostro Paese è meno innovativo in ambiti di ricerca dove invece le lavoratrici – e quindi le potenziali inventrici – sono numerose. Basta pensare alle biotecnologie, alla chimica o al comparto farmaceutico. Nel caso italiano in particolare pesa poi la scarsa propensione a brevettare delle università dove queste discipline sono studiate in modo prevalente.

Cosa fare quindi per risolvere la questione? I passi suggeriti dall’economista Andrea Filippetti su La Voce sono tre: ridurre le disparità di genere nell’industria, stimolare specializzazioni quali la farmaceutica e la chimica e prediligere strutture collaborative meno gerarchiche e più orizzontali. A cominciare dalle scuole, dai laboratori e dagli atenei. Anche perché occorre ricordare che la capacità di innovare è il motore della crescita economica e senza donne scendiamo in campo con la metà dei giocatori in squadra.

Diana Cavalcoli

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