Per fare startup serve esperienza, ma non troppa. Lo studio di un docente UniPd

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Andrea FurlanLe startup vincenti? Sono il frutto dell’esperienza, almeno nel settore manifatturiero. Come dire: nascono più grandi, crescono meglio, hanno un ciclo di vita mediamente più lungo se chi le ha fondate ha alle spalle una carriera di circa dieci anni in un’azienda dello stesso settore. Oltre i dieci anni la curva torna ad abbassarsi formando una “U”, con l’affievolirsi della propensione al rischio.

È la tesi, in brutale sintesi, di Andrea Furlan, professore di management all’Università di Padova che in un recente articolo pubblicato sul Journal of Small Business Management, intitolato “Startup Size and Pre-Entry Experience: New Evidence from Italian New Manufacturing Ventures” (a questo link la versione integrale a pagamento), ha esposto i risultati di una ricerca sulle startup manifatturiere del Veneto. Giungendo a conclusioni che sembrano ribaltare tanti luoghi comuni.

E gli under 35? I bambini-inventori prodigio? Gli imprenditori seriali freschi di laurea? Bellissime storie personali, ma i grandi numeri dicono altro: e cioè che che le loro imprese sono destinate a chiudere in fretta, oppure a restare nane. Ecco perché, secondo Furlan, le politiche pubbliche dovrebbero tener conto dell’esperienza, non solo dell’anagrafe.

Professor Furlan, qual era l’obiettivo della sua ricerca?

L’idea era di studiare le startup o new ventures – nuove imprese – e vedere l’effetto che l’esperienza pregressa dei fondatori, ha sulla dimensione iniziale di queste imprese, ovvero il numero di dipendenti con cui partono. La ricerca è iniziata tre anni fa.

Su quale campione si è basato?

Mi sono focalizzato su 3.456 new ventures nate dal 2005 al 2007 in Veneto, in 20 settori manifatturieri. È un campione rappresentativo delle new ventures in Italia, visto che in Veneto ne sono nate circa 6.000 in questi anni, e la regione conta circa il 10% sulle nuove imprese nate ogni anno nel nostro Paese. Le realtà che ho considerato sono imprese individuali, che rappresentano mediamente il 70% delle nuove imprese che nascono ogni anno.

 

Quali parametri ha misurato in questo campione?

Per ogni società ho misurato il numero di dipendenti alla nascita: in media sono 2,09 più il fondatore, un dato molto simile alla media delle startup italiane che si attesta a 2,62. La dimensione iniziale è infatti un buon indicatore per stabilire la longevità di una startup. La letteratura tende a dimostrare che più grandi sono alla nascita, più le nuove imprese prosperano al lungo. Il passo successivo è stato legare questo dato all’esperienza dei fondatori: se hanno lavorato da dipendenti in quel settore o in altri, o se hanno avuto precedenti esperienze imprenditoriali. La tesi di partenza era che, a differenza di quanto si sente ripetere nel discorso comune che lega startup e giovane età, nella stragrande maggioranza dei casi le startup di successo nascono da persone con esperienza in quel settore.

A quali conclusioni è arrivato?

Principalmente due. La prima: l’esperienza industry specific, cioè da dipendente nello stesso settore, ha un effetto positivo sulla dimensione iniziale. Lo stesso vale per la precedente esperienza da imprenditore nel medesimo settore. L’esperienza da dipendente in altri settori, invece, non ha alcun effetto. Lo dicono i numeri: chi crea un’impresa da zero dopo essersi fatto le ossa lavorando da dipendente in quel campo ha in media il 36% di dipendenti in più rispetto a chi si avvicina per la prima volta a quel settore. Chi ha già fatto l’imprenditore in quel settore avrà una dimensione del 53% maggiore rispetto a chi lo ha fatto in altri settori.

E la seconda conclusione?

È anche la più originale: avere esperienza è positivo, ma averne troppa no. La punta massima nelle dimensioni di partenza di raggiunge dopo 110 mesi di esperienza pregressa, quindi circa 10 anni da dipendente o imprenditore nello stesso settore.

E dopo che succede?

La dimensione media delle startup, dopo i 110 mesi, decresce, formando una curva a “U”. I motivi sono facilmente intuibili: chi ha passato troppo tempo in un’azienda e si mette in proprio nello stesso settore è più avverso al rischio, tende a replicare esattamente il modello di business e la routine dell’impresa da cui viene. Così si investe di meno nell’innovazione e si assumono meno persone.

Figura da "Startup Size and Pre-Entry Experience: New Evidence from Italian New Manufacturing Ventures" di Andrea Furlan, Journal of Small Business Management

Figura da “Startup Size and Pre-Entry Experience: New Evidence from Italian New Manufacturing Ventures” di Andrea Furlan, Journal of Small Business Management

Un esempio concreto?

Chi ha lavorato 10 anni nel retail ed esce per mettersi in proprio aprirà probabilmente un negozio tradizionale, senza accorgersi che oggi in quasi tutti i settori il 30% delle vendite avviene online. Quindi non assumerà un programmatore di software per progettare e gestire un portale di l’e-commerce. E partirà più piccolo, senza cogliere l’innovazione.

Cosa insegna il suo studio all’ecosistema italiano dell’innovazione?

I policy maker dovrebbero incentivare le startup di successo, quindi tenere conto del valore che l’esperienza ha nel determinare il successo di una nuova impresa.

E invece?

Questi ragionamenti non vengono minimamente considerati da chi elabora le policy quando si tratta di startup. Al contrario, gli spin-off, cioè le startup nate da chi ha già operato nello stesso settore, sono osteggiati. Perché i bandi e gli incentivi si rivolgono spesso agli under-35 o ai neolaureati, e perché gli spin-off, le startup fondate da persone con esperienza nel settore, sono osteggiati. Spesso dipendenti e manager sono costretti a firmare clausole di non competività, che impediscono loro, quando escono da un’azienda, di fondarne un’altra in settori simili per 5 o 10 anni. Tirando così il freno a mano all’innovazione.

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